di Linda Coppi Le inestimabili raccolte d’oggetti d’arte, da sempre hanno contribuito a far divenire Firenze meta di viaggiatori italiani e stranieri, creando un forte sviluppo del commercio d’opere d’arte, divenute, per molti, il ricordo prediletto da riportare in patria. Nel Settecento, «molto attivo fu, il mercato delle opere d’arte che vide coinvolti fra gli altri il pittore e collezionista Ignazio Enrico Hugford nato a Firenze nel 1703, l’ambasciatore Horace Mann in città dal 1738 per un quarantennio, il vedutista e caricaturista Thomas Patch, arrivato nel 1755 e presto collaudato nella dispersione delle collezioni Vecchietti ed Arnaldi, John Udny console generale a Livorno dal 1776, proveniente da Venezia dove svolse analoghe incombenze e dove ebbe il battesimo del mercato antiquario» . Tutti inglesi , aiutati da mediatori e antiquari fiorentini, anche di rango, che, convinsero gli aristocratici della città a vendere intere collezioni. Partirono, così, per l’Inghilterra, collezioni importanti come quella di Francesco Maria Niccolò Gaburri , morto nel 1742, acquistata per la maggior parte dal mercante William Kent; mentre George Nassau riuscì a mettere le mani sui più bei dipinti delle collezioni Borgherini, Guadagni e Torrigiani. In ogni caso, non bisogna pensare che tutte le opere d’arte uscirono lecitamente dal territorio granducale: «..passarono fuori porta le tele arrotolate e i disegni mentre i dipinti su tavola e le opere d’arte meno facilmente occultabili si spedivano in ‘villa’ e di li uscirono furbescamente dai confini del granducato» . Il sistema doganale del granducato, sino all’arrivo dei Lorena, si basava su un decreto mediceo del 1602 che limitava le esportazioni. Ad ampliarne la portata fu il Consiglio di Reggenza nel novembre del 1754, poi, con una serie di provvedimenti, Pietro Leopoldo riformò il sistema fiscale, delle dogane interne ed estere. Il corollario di queste riforme si ebbe con la Legge doganale generale che aboliva le dogane interne, lasciando solo i dazi, alle porte delle città più importanti. Questa legge, anche se è comunemente ricordata come una riforma leopoldina, fu emanata nell’ottobre del 1791, al tempo di Ferdinando III. Tutte queste leggi erano ben conosciute dai mercanti, dagli esportatori e dagli spedizionieri del granducato. Secondo i documenti delle Regie Gallerie furono più di 110 i richiedenti di permessi per esportare, nel periodo che intercorse tra il 1768 ed il 1815, per un ammontare di circa 285 domande per un numero complessivo di circa 2.900 opere esportate. Questi personaggi, «intraprendenti tuttofare, erano numerosi come Niccolò Leoni spedizioniere, Pietro Becagli ‘mezzano de’Cambi’, Ferdinando Dhotel con bottega in via dei Servi, Antonio Quirquernel ‘oriolaio’ qualificato, Carlo Cantoni nelle grazie di John Udny, al quale inviava a Livorno i dipinti già restaurati. Altri ancora come Filippo Morandi, che in cinque anni appose il suo sigillo con ‘l’Ape Regina’ a non meno di duecentocinquanta quadri, erano ricordati insieme ai fratelli Salvetti, banchieri e procuratori per la clientela cosmopolita sempre numerosa a Firenze, a Vincenzo Maria Morelli e a Donato Orsi e Figlio che dal loro banco spaziavano dall’Inghilterra alla Polonia» . I loro nomi continuavano a ripetersi nelle filze accanto a molti altri , quali Bonaventura Benucci, Vincenzo Capponi, Michele Ghiara, Ottaviano Marchi, Lazzaro Rampezini, Jacopo Wright, Cesare Marchetti, Vincenzo Giannini; questo ultimo assiduo copista della Regia Galleria, che, alla fine degli anni ’80 del secolo, si occupò dell’invio in Inghilterra della collezione di Sir Horace Mann , mentre nel 1790 Angelo Mezzeri inviò in Inghilterra 94 quadri, costituenti l’eredità di Lord Cowper , che andarono ad unirsi a quelli della collezione di Panshanger. Ma altri personaggi s’improvvisarono esportatori occasionali o addirittura abituali, come il pittore sassone Wilhelm Berczy, che riuscì a convincere il Direttore della Regia Galleria, G. Pelli Bencivenni, a lasciargli esportare un Paese di Poussin, avendo così la meglio sul diniego d’esportazione di Gesualdo Ferri, ma, dovette lasciare ‘in patria’ una Istoria del Rubens ed un Paese di Jan Both . Ma il più assiduo richiedente fu senza dubbio lo pseudo-restauratore di via Valfonda, Vincenzo Gotti, che nell’arco temporale di 18 anni, dal 1776 al 1794, in cui le domande furono sempre autografe, inoltrò al Direttore della Regia Galleria più di 50 richieste di permesso per esportare, per un totale di circa 400 quadri esportati. Altra figura a cui dovremmo attribuire un notevole ‘stillicidio’ fu il marchese Alfonso Tacoli Canacci a Firenze dal 1778, che in poco più di 6 anni, dal 1786 al 1792, esportò dai felicissimi stati, una quantità pari a 592 opere d’arte, di cui molte acquistate e inviate a Parma, su committenza dell’infante duca, Don Ferdinando di Borbone che volle arricchire le sue quadrerie. Abbiamo detto, che la maggior parte delle opere esportate era di provenienza di collezioni private, ma nella seconda metà del Settecento si aggiunsero i conventi e le corporazioni religiose. Con le leggi leopoldine, a partire dal 1776, vi fu la soppressione di molti di questi istituti che iniziarono ad essere spogliati delle loro ricchezze, così da incrementare il mercato, e nello specifico, il mercato d’opere d’arte a soggetto sacro. Come si può notare dalle fonti d’archivio, questi soggetti che erano molto apprezzati dal pubblico, soprattutto inglese, erano d’epoche diverse, si poteva passare dai così detti fondi oro ai primitivi, da considerare già molto di moda alle opere d’Andrea del Sarto, del Bassano, del Buonfigli, di Carlo Dolci, a quelle che comunemente nelle filze erano dette di mano del Frate, identificando con tal detto le opere di Frà Bartolomeo, oltre a quelle di Giovanni da San Giovanni, del Guercino, di Guido Reni e di Raffaello Sanzio e molti altri. Se i pezzi delle collezioni o degli enti religiosi non erano acquistati dal granduca e non trovavano un acquirente in Toscana, potevano essere venduti all’estero, e questa operazione commerciale si presentava piuttosto semplice, in quanto era necessario, come abbiamo detto, soltanto un permesso di esportazione. Partiti dal Granducato questi pezzi giungevano nelle mani dei mercanti d’arte del mercato londinese e parigino. «Parigi nella seconda metà del XVIII secolo fu al centro di un mercato d’opere d’arte divenuto ormai europeo; europeo, perché a Parigi si rivendevano gli oggetti acquistati in Italia, in Belgio, nelle Province Unite. E perché gli acquirenti provenivano da tutti i Paesi del continente. Anche se qualcuno preferiva, avendone i mezzi, procurarsi i dipinti e le antichità direttamente alla fonte […], per acquistare capolavori entrati da molto tempo nelle collezioni e che riapparivano sul mercato solo per il breve tempo di un’asta, si era obbligati a passare per Parigi. Così si potevano vedere affaccendarsi nelle vendite parigine gli agenti dei re di Prussia o di Sassonia, della zarina, dei principi tedeschi, dei lord inglesi. E le cose continuarono così fino a quando la Rivoluzione non mise fine al primato del mercato parigino. Il testimone passò allora a Londra, e a Londra furono vendute le maggiori collezioni francesi, fra cui i pezzi più belli della più celebre di tutte: la collezione d’Orléans» . «A quel tempo, era probabilmente la più prestigiosa collezione privata del mondo, e la sua cessione costituì senza alcun dubbio il più clamoroso evento del genere da quando, nel 1746, gli Estensi avevano venduto al re di Sassonia un centinaio dei loro quadri più importanti. Gli effetti della Rivoluzione francese non si limitarono ad un semplice trasferimento del centro del mercato dell’arte, ma si fecero sentire anche nella forte crescita dell’offerta d’opere d’arte di nobili ormai in rovina o molto impoveriti o di conventi soppressi o in via di soppressione. L’ambiente artistico del granducato di Toscana risentì, come le altre capitali europee, della Rivoluzione affrettandosi verso l’acquisto di dipinti ed opre francesi, ma con il periodo napoleonico si tornò ad uno stato di repressione, tanto che dall’Inghilterra, «uno stormo d’agenti, di mercanti, di artisti falliti, di avventurieri di ogni genere calò in Italia come uno stormo di avvoltoi, e raccolse il suo bottino estorcendolo alla nobiltà locale, costretta a versare gli esorbitanti balzelli imposti dall’esercito francese invasore. Per oltre un decennio parve che tutta Europa, dai duchi ai generali, dai frati ai ladri comuni, fosse impegnata in un'unica, colossale campagna speculativa avente per oggetto il commercio delle opere d’arte. Se ne accorse anche Giorgio III, tanto da osservare con sarcasmo che tutti i nobili del suo paese si erano trasformati in altrettanti mercanti di quadri» . La grande esportazione di opere d'arte nei secoli ha incentivato sempre più la produzione di ''copie'' di cui parleremo nel prossimo articolo
Per la bibliografia e la ricerca documentaria si veda: Linda Coppi, Esportazione d'oggetti d'arte: il mercato nella Firenze granducale tra Sette e Ottocento in Studi Storici Luigi Simeoni, 2006
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